Non siamo figli di un dio minore

Sguardi dalla stiva


I temi del lavoro sono un’emergenza sociale.
Non più rinviabile.
C’è una poesia di Bertolt Brecht che rileggo spesso, perché secondo me rende bene l’idea della permanente condizione dei lavoratori nella società divisa in classi.
S’intitola “Domande di un lettore operaio” e così recitano le prime strofe:

Tebe dalle sette porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.

Sono stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò?
In quali case di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori ?
Roma la grande è piena d’archi di trionfo. Chi la costruì?
Su chi trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare li inghiottì,
affogarono gridando aiuto ai loro schiavi…

Già. Storie del tempo che fu, dirà qualcuno. Ma a ben vedere, sono più che mai storie del nostro secolo. E tutt’altro che marginali…
La classe operaia è stata travolta da un trentennio di ristrutturazioni e dal vento liberista della globalizzazione. Le grandi fabbriche dove si era attestato il “nucleo duro” del cambiamento sociale, irradiatosi tra gli studenti, le donne, i movimenti dei diritti, la cultura… queste grandi fabbriche ci sono state sfilate di mano. La mia generazione, i “fratellini minori” del ‘68, quelli che guardavano con invidia ed ammirazione i fratelli maggiori dominare le assemblee e i cortei, quelli che hanno poi scelto la fabbrica per cambiare il mondo si sono, quasi di colpo, trovati con il loro mondo, quello del lavoro, capovolto. Senza più referenti e con i partiti, gruppi, sindacati, che spesso avevano cambiato ragione sociale, pur negandolo in tempi di elezioni.
È un po’ ciò che racconta con amara ironia Sergio Endrigo nella sua “Ballata dell’ex”: ma i tuoi compagni ormai non ci sono più, son tutti ai ministeri e alla TV…” o in qualche altro ufficio, poco importa. Rimane il problema se ci sono ancora gli operai. Direi di sì: saremo sparpagliati, demoralizzati e tutto ciò che si vuole, ma ci siamo, e più di ieri. Cinque milioni di dipendenti dicono le statistiche. Ebbene, queste persone, stanno meglio o peggio dei loro padri? Meglio o peggio rispetto. a dieci anni fa? Sicuramente peggio. E non solo per il salario ma anche e direi soprattutto, per l’incertezza estrema della loro condizione, per i rischi che si corrono sul lavoro (1206 morti nel 2005!), per i trattamenti che si subiscono. Da un elenco molto sommario, fatto “al volo”, più da manovale del sindacato che da analista, potrei snocciolare i seguenti “punti dolenti” di noi lavoratori: salario orario precarietà salute in fabbrica delocalizzazioni deindustrializzazione occupazione fisco immigrazione.
Sono questioni per forza di cose collegate tra loro, perché “tutto si tiene”. Potremmo inquadrarle come effetti di un lungo ciclo liberista che attraversa gli ultimi decenni In pratica ogni forma di vita è stata mercificata. Con la diffusione del capitalismo in tutto il pianeta e la liberalizzazione dei mercati si è alla fine pienamente affermato il potere impersonale del capitale. Mai, nelle epoche precedenti, pur basate anch’esse sullo sfruttamento, il dominio delle cose sull’uomo aveva toccato simili vette.
Dire dunque “precarietà” significa sintetizzare il dato sociale, politico, psicologico, esistenziale dei lavoratori. Mi limiterò a dire qualcosa sulla precarietà del rapporto di lavoro. La legge 30 varata dal governo Berlusconi ha portato a più di 40 le tipologie d’assunzione in Italia, completando da par suo un lavorio di demolizione del rapporto a tempo indeterminato cominciata negli anni ‘90. Si è voluto così affermare, da sponde diverse, il primato dell’ideologia liberista secondo cui più flessibilità corrisponde a più competitività.
Nel giro di pochi anni questa flessibilità, che casomai doveva riguardare l’organizzazione del lavoro, la gestione degli orari, le mansioni, è diventata precarietà a 360 gradi investendo la tipologia delle assunzioni.
Si è prodotta così una miriade di contratti diversi al solo scopo di mascherare spesso il lavoro subordinato (cococò e cocoprò vedi caso Atesia) e di abbattere tutele di ogni tipo. Il risultato è che, secondo il CENSIS, l’industria nel 2005 ha l’8% di lavoratori atipici. Soprattutto, ma non solo giovani. Dei diplomati italiani assunti nel 2004 il 57% lavora a termine e percepisce come media 942 euro al mese. La precarietà inoltre si sta spostando nell’ambito della Pubblica Amministrazione (10% di assunti a termine e addirittura il 20,2% nella Pubblica Istruzione).



Una guerra silenziosa
Inail: 1206 le vittime del lavoro nel 2005

 

Secondo un’elaborazione Anmil sui dati Inail, nel 2005 in Italia si sono registrati 930.566 infortuni superiori a 3 giorni di inabilità.
Gli infortuni non determinati (quasi sempre con inabilità inferiore a tre giorni, per i quali non c’è obbligo di denuncia Inail) sono stati invece 217.036.
Quanto agli infortuni totali, compresi i mortali, nell’anno passato si sono registrate 1.058.810 denunce.
Gli infortuni mortali sono stati 1.206: 1123 per gli uomini e 83 per le donne.
Gli infortuni sul lavoro, denuncia l’Amnil, sono (tra i fenomeni “evitabili”) inferiori per numero solo agli incidenti stradali. Un elevato numero di vittime è rappresentato da donne (i primi dati accertati fanno contare 8 decessi al mese nel 2006) e giovani lavoratori tra i 17 e i 34 anni (nel 2005 sono state 8530 le denunce di infortunio fino a 17 anni e 364.714 tra i 18 e i 34 anni)

Il Manifesto, 8 ottobre 2006


La CGIL e in particolare la FIOM, sono per l’istituzione di un reddito di cittadinanza per tutti coloro che non hanno un posto di lavoro continuativo. Sono per portare a 6-7 le forme di assunzione, per l’abolizione dei cococò e cocoprò, per reintrodurre le causali e le percentuali del lavoro a termine.
Insomma, va riscritta la legislazione del lavoro, per arrivare a un contratto unico del lavoro dipendente, fondato su tre tutele:
1) Un compenso adeguato e sufficiente per il lavoratore e la sua famiglia (art. 36 della costituzione).
2) Applicazione per tutti dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori
3) Il versamento pieno della contribuzione da parte del datore di lavoro.
Sarebbe coerente con lo scopo introdurre che ogni sovvenzione, credito d’imposta o taglio del cuneo fiscale alle aziende vengano applicate solo a chi assume a tempo indeterminato. Tutto ciò in sintonia con la direttiva che si è dato il Sindacato Europeo (CES) di armonizzare verso l’alto le condizioni di lavoro. Possibilmente, aggiungo, con qualche sciopero europeo all’uopo organizzato. Che per ora è un sogno.

Sul salario orario: anche qui l’equazione liberista “meno salario e più orario = più sviluppo” è fallita miseramente. Il salario italiano medio lordo è di 30.712 euro annui, il 6° dell’ UE (dati Mediobanca). Il costo del lavoro orario è inferiore del 10 % a quello medio dell’Europa a quindici.
Il potere d’acquisto dal 2000 al 2005 è calato del 4%. Per converso, di fronte ad un’inflazione reale crescente, le imprese hanno realizzato nel 2005 utili per 23 miliardi di euro (+ 6,4% sul 2004).
E i posti di lavoro? Ben 46.266 in meno nel triennio 2002 — 2005. Certo, in compenso c’è il “nero” che prospera… Un sondaggio del “Financial Times” del giugno 2006 evidenzia che sugli orari di lavoro l’Italia è la quinta in Europa (1599 ore medie annue), dietro l’Olanda, ma prima dei francesi (1459 ore) e dei “mitici” tedeschi (1438 ore).
Dov’è allora il problema? Il problema sta nella frammentazione produttiva (oltre 4 milioni di imprese) che abbassa la produttività generale, nel peso abnorme delle burocrazie, nel proliferare delle professioni (1,8 milioni di professionisti iscritti a 27 Ordini e Albi) che pompano risorse, nel processo di deindustrializzazione collegato al basso valore aggiunto dei prodotti. Oltre al predominio ormai avvenuto (e scoperto con lungimiranza dal pensiero socialista) del capitale finanziario. Tant’è che i sociologi avveduti come Luciano Gallino dichiarano senza problemi:
“Diciamo che si è sviluppata una nuova classe borghese globale, una ‘classe — mondo’ la cui punta di diamante è fatta dai manager che usano i soldi degli altri” (L’Unità, 31-7-2006).
Solo il 15% dei beni e dei servizi del paese sono ad alto valore aggiunto, contro una media europea al 30%. L’Italia non è più in grado di soddisfare una domanda di prodotti ad alta tecnologia per i quali il costo del lavoro è secondario, mentre invece prioritarie sono la ricerca e l’innovazione.
Osserva il prof. Giorgio Lunghini:

“Gli imprenditori che pagano poco la forza-lavoro dirigono imprese insufficienti o marginali e cercano di compensare in questo modo la loro inefficienza. Sono loro che dovrebbero essere licenziati. Se si paga meglio un lavoratore si rende più efficiente il suo datore di lavoro… Basta leggere un po’ di storia economica. Se poi si considera che il mondo è un sistema chiuso, si capisce che una riduzione universale del costo del lavoro si tradurrebbe in una crisi generale di sovrapproduzione” (il Manifesto, 19-09-06).

Si tratta di deindustrializzare aree con attività ad alto contenuto tecnologico, ponendo precisi vincoli sociali, ambientali, cooperativi, occupazionali. E questo può essere fatto solo da un serio ad autorevole intervento pubblico, previo coinvolgimento di lavoratori e cittadini.
Solo così si dovrebbe poi concedere accesso facilitato al credito, finanziamenti per ricerca e formazione, snellimenti delle burocrazie, semplificazioni fiscali, ecc. Un altro esempio: le cessioni di azienda o di ramo d’azienda. Chi cede un’azienda o parte di essa deve essere considerato corresponsabile della sorte dei lavoratori ivi occupati per un certo numero di anni. È una vicenda che sto vivendo in prima persona.
Inoltre la questione redistributiva, cioè il fisco, con tutto il suo impatto classista. Chi ha dei dubbi sull’esistenza della lotta di classe dia un’occhiata agli atteggiamenti che ogni strato sociale ha nel suo rapporto “puramente economico” verso lo Stato. Qui si rischia di essere noiosi. Secondo l’ISTAT (dati del 2005) solo lo 0,86 % dei contribuenti denuncia più di 90 mila euro l’anno, ed appena lo 0,14% oltre i 200 mila. Si calcola in 1/4 del Pil nazionale (311 miliardi di euro) l’imponibile evaso. Se un metalmeccanico “dichiara” circa 20 mila euro ed un albergatore — ristoratore poco più di 14 mila, siamo al disastro! Sfido che non ci sono i soldi per le pensioni! Ci vorrebbero ancora altri 10 decreti — Bersani, il ripristino della progressività d’imposta ed il recupero totale del fiscal drag, che ancora aspettiamo.
I lavoratori immigrati devono essere trattati come tutti i lavoratori, non discriminati. Se ci facciamo la guerra è finita. Qualcuno sarebbe contento, e noi dobbiamo evitare la trappola. Questi nostri fratelli hanno problemi specifici da risolvere: abitazione decente, diritto al ricongiungimento familiare, cittadinanza per loro e per i figli nati in Italia, un permesso di soggiorno mirato al lavoro e non alla clandestinità, i CPT… C’è una richiesta imprenditoriale di 250 mila immigrati l’anno. Che entrino come uomini, non come bestie!
Secondo la Caritas (dati 2005) tra di loro ci sono il 12% di laureati (gli italiani sono al 7,5 %) e il 27 % di diplomati (tra italiani il 25,9%). Queste competenze non vengono riconosciute e di formazione manco a parlarne. Il “nero” dice l’INPS, coinvolge circa 4 milioni di lavoratori, con 170 miliardi sottratti all’erario. Così mentre abbiamo, dal ‘99 ad oggi, 5271 migranti morti alle frontiere europee (dati “Fortress Europe”), i decessi per infortunio o malattia professionale toccano la strabiliante cifra di 130.000 nell’UE!
E l’INPS denuncia che solo il 41% del suo personale è impiegato in ispezioni… e delle ASL non ne parliamo.
Alla fatidica domanda “che fare” si potrebbe rispondere in molti modi. Intanto direi di non mollare la presa. Anche in condizioni di minoranza, non stancarsi mai di denunciare, agitare, organizzare, pubblicizzare… insomma lottare. Non farsi prendere dallo scoramento, anche se a volte tutto sembra inutile. Se formi gli argini, qualcuno percorrerà la strada, perché essa è segnata, ed è quella dell’emancipazione degli oppressi.
Alla nostra generazione di “fratellini minori” è stato concesso di vivere un’epoca di cesura storica dove, superate tutte le traversie del cammino, si comincia a ricostruire e a risalire la china. E noi, segnati dal tempo, possiamo ancora crescere insieme a questi giovani che, in fondo, ci chiedono di fare onestamente la nostra parte. Viene quasi da rallegrarsi…
No, non siamo figli di un Dio “minore”!

Graziano Giusti



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