N°71 / 1. Parlare di lavoro al tempo del precariato

Editoriale (1)


L’esperienza dei pretioperai, almeno come l’ho vissuta io, si è caratterizzata lungo questi anni per una significativa immersione nella realtà quotidiana di molti uomini e donne che si mantengono col proprio lavoro, che fanno i conti con la normale fatica di vivere, spesso in contesti disagiati. Una complessiva modalità di vita che rinunciava a tutele e corsie preferenziali (la vita parallela dei chierici!) condividendo, almeno in parte, aspetti di vita non previsti nel regime clericale. Tra i quali, in posizione primaria, il lavoro manuale dipendente. Vissuto sulla propria pelle, esistenzialmente devastante per chi da “pescatore di uomini” è tornato alla fatica della pesca materiale, in uno scenario che non aveva niente di romantico (il lavoro creativo, espressivo, che nobilita…) in quanto caratterizzato dallo sfruttamento capitalistico, il lavoro è stato il fatto umano su cui si è posta più attenzione, coinvolgimento, passione. Mentre morivano in bocca le tradizionali “parole di chiesa”, le nuove parole dei pretioperai risuonavano con forza nel descrivere un mondo sconosciuto, nell’esprimere il disagio vissuto, nel gridare lo sdegno per l’ingiustizia e il desiderio di cambiamento…
Anch’io ho provato a farlo, pur nella consapevolezza dell’ultimo arrivato, che, inoltre, non ha neppure esperimentato la condizione lavorativa in un contesto di grande industria, con tanto di memoria operaia e di soggettività sindacale.
Ora, però, percepisco che qualcosa è cambiato. Non nello svolgimento delle mie mansioni (che sono sempre le stesse: trasporti, pulizie…) ma nel contesto più ampio del lavoro che non è più un mondo bensì una galassia formata da pianeti tra loro molto diversificati.
Pur nell’impossibilità di una descrizione a tratti univoci, agli occhi di un qualsiasi attento osservatore appare il dato più problematico di altri della precarizzazione. Emblematicamente affrontato nel libro di Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese…, nel quale trovano voce esperienze lavorative segnate dall’ansia della sopravvivenza in quanto sporadiche, mal pagate, senza nessuna forma di sicurezza, in balia di quella forma di caporalato legale che sono le agenzie interinali.
E così io, che continuo a spostare scatole o a pulire stanze – lavoro non durissimo ma, a volte, umiliante – avendo un regolare contratto a tempo indeterminato all’interno di una cooperativa che, pur non essendo esente da limiti, gestisce con trasparenza il rapporto lavorativo e fa di tutto per tutelare i propri soci, divento reticente quando mi si chiede di parlare del lavoro.
Quel senso di privilegio che mi aveva spinto ad abbracciare la condizione operaia ritorna ad emergere non perché, nel frattempo “mi sono sistemato” ma perché nel triste panorama di questi anni sono venute meno tutta una serie di conquiste, strappate precedentemente grazie alle lotte e ad una dura contrattazione e poi di nuovo perse col cambiamento dei rapporti di forza nel nuovo scenario del mercato globale.
Reticente, dunque, non perché non ho più niente da dire. Ho pur maturato in questi anni un briciolo di consapevolezza operaia, un giudizio sul complesso mondo cooperativistico, nel quale convivono forme estreme di sfruttamento insieme ad esperienze di partecipazione e di gestione condivisa. Ma è come discutere di inezie a fronte di macigni. E come preoccuparsi delle ferie degli operai egiziani, mentre il grosso della produzione è svolto dagli schiavi ebrei spremuti a morte. L’esempio non vuole essere casuale, dal momento che alla radice della scelta lavorativa dei pretioperai ci sta l’acquisizione teologica del Dio che ascolta il grido dell’oppresso e scende a liberarlo.
A quale grido porgerebbe orecchio oggi Dio?
Suona alquanto paradossale trovarsi dall’altra parte, quella “fortunata”, pur svolgendo mansioni uguali, se non qualitativamente peggiori, a quelle svolte dai tanti precari che fanno fatica a tirare la fine del mese. Una sensazione che mette in discussione l’idea stessa che sta al fondo della scelta dei pretioperai ovvero la possibilità di condividere una condizione disagevole assieme ai tentativi di riscatto che sorgono dall’interno.
Forse è meglio chiarire questo punto. Non è che i pretioperai abbiano coltivato l’ingenua pretesa di una condivisione totale: l’educazione ricevuta ed altri privilegi inestirpabili rimanevano a ricordare una storia che solo nel secondo tempo della partita ha dovuto (per scelta, non per obbligo!) affrontare il terribile avversario dello sfruttamento. Inoltre la scelta della condivisione è caduta su una classe (mi si perdoni l’espressione “vetero”!) umiliata e offesa sì ma non certo classificabile come “ultima” nella scala sociale. Gli ultimi sono piuttosto coloro che arrivano a sperimentare una precarietà biologica, come gli impoveriti del Sud del mondo.
Non ci siamo presentati con gli abiti esotici e straordinari del missionario a rischio di martirio. Abbiamo abbracciato una condizione del tutto comune svelando l’ordinaria follia dello sfruttamento che l’attraversa. Ritenuto talmente normale da non scandalizzare più. La nostra, probabilmente, è stata una voce che ha provato a gridare nel deserto dell’accettazione rassegnata, se non della totale giustificazione, svelando, dietro le apparenze, una condizione dai tratti disumani.
Dunque, nessuna pretesa di aver messo il dito sulla piaga più infetta, di aver condiviso il peggio della condizione umana. Solo il chiodo fisso di provare a guardare la storia dal basso (non dall’abisso!), di stare dentro una condizione che un chierico non doveva sperimentare. E questo limitatamente al tassello del lavoro manuale dipendente nel Nord del mondo.
Ma ora risulta problematica la stessa condivisione entro i limiti sopraindicati. Ora, all’interno di uno stesso contesto lavorativo o nell’esecuzione di una medesima mansione passa una linea di confine che prima segnava il territorio della fabbrica distinguendolo dall’esterno. Ora, uno accanto all’altro stanno l’operaio dipendente a tempo indeterminato e il precario. E solo apparentemente svolgono lo stesso lavoro.
Vivendo condizioni così diverse nell’inquadramento lavorativo a monte e nelle ricadute esistenziali a valle, difficilmente s’innescano solidarietà. Più normale la conflittualità, la guerra dei poveri contro i più poveri…
In un simile contesto la mia reticenza a parlare del mio lavoro vorrebbe essere funzionale a dare la parola a chi sperimenta un lavoro “senza protezioni”. Mi piacerebbe che su questo tema prendesse la parola chi (non necessariamente preteoperaio) vive tale precarietà.
Una reticenza che, invece, s’impone di venir meno quando si tratta di denunciare la retorica interessata della flessibilità ad oltranza, l’ideologia della precarizzazione. Richiamando e difendendo alcune “rigidità” quanto allo svolgimento delle mansioni, all’orario, alla trasparenza retributiva, al trattamento delle persone.
Ed anche quando occorre discernere l’autentica fede cristiana dall’uso strumentale e idolatrico della religione. Non sfuggirà che c’è molto più di una semplice assonanza tra i termini “precario” e “preghiera”: condividono, infatti, la stessa radice. In una situazione di grande precarietà si sente come non mai l’esigenza di affidarsi a qualcuno, di dipendere da chi assicura un terreno, roccioso o sabbioso che sia, capace per qualche istante di dissipare il senso di fragilità che caratterizza il nostro orizzonte, quella postmodernità “liquida” nella quale ci sembra di affogare.
Nella precarietà ritorna con prepotenza l’esperienza della preghiera, precedentemente sospetta a causa del deficit di autonomia che avrebbe veicolato. La preghiera orizzontale, rivolta ai potenti, al posto della rivendicazione dei diritti, dell’azione sociale; e quella verticale, nei confronti di quel divino che ora non viene più problematizzato. Come non denunciare questa ambigua spiritualizzazione? Anche perché, a fronte della “rivincita del sacro”, o meglio, sulla stessa scena della sacralità del presente, emerge contemporaneamente la dissacrazione della vita degli sventurati, di chi sperimenta la precarietà nelle sue molteplici forme.
Come nell’Egitto, descritto dal libro dell’Esodo, convivono una ricca religiosità e l’oppressione degli schiavi; come a Gerusalemme si celebra la Pasqua e si crocifiggono i perturbatori dell’ordine; così anche oggi sacralità e dissacrazione, inni e urla, anime libere e corpi incatenati stanno gli uni di fronte agli altri, protagonisti di un unico scandaloso panorama.
Mentre per molti credenti l’attuale temperie spirituale non desta alcun problema (anzi, appare particolarmente propizia: un tempo finalmente favorevole per chi ha un Dio di riferimento a cui affidarsi nella preghiera), personalmente, ritengo che nell’epoca del precariato sia necessario come non mai, mantenere alta la vigilanza nei confronti degli usi impropri della fede, del chiacchiericcio che “nomina invano”, del divino ridotto ad idolo.
Dunque, strategia della reticenza, nella misura in cui è funzionale a mettersi in ascolto, stimolando a parlare chi ha perso ogni soggettività e nel lavoro sperimenta una dipendenza umiliante. E, insieme, strategia della vigilanza critica e della denuncia da parte di chi ha più possibilità di esporsi e continua ad indignarsi per gli usi strumentali degli umani ed anche di Dio.

Angelo Reginato


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